All’indomani del crollo dell’URSS sembrava che gli USA si fossero affermati come indiscussa superpotenza della comunità internazionale. Tuttavia, la percezione di un mondo unipolare andava via via mettendosi in discussione grazie al –seppur lento– progredire economico dei Paesi in via di sviluppo che iniziavano a ritagliarsi un ruolo ben preciso nella sfera internazionale.
Andava così formandosi un regionalismo che cresceva sempre più: le sfide cui andavano incontro Cina, India e la neonata Federazione Russa erano tutt’altro che facili. Le loro monete non erano tanto forti quanto il dollaro, la loro agricoltura non disponeva delle più recenti tecnologie ed il settore terziario faticava a decollare.
Dunque, questi Paesi come potevano sorgere se si trovavano in una condizione tanto precaria?
Due aspetti: i ricchi uomini d’affari e la loro assenza di scrupoli nello sfruttamento del lavoro a basso costo. Così facendo, rendevano appetibili i loro prodotti creando una forte concorrenza nei mercati internazionali.
Per tutto il decennio Novanta, la Russia di Elstin viveva la transizione economica da un’economia pianificata ad un’economia di scala: l’avvenuto cambiamento, non avendo rispettato i processi di maturazione che nel frattempo il mondo atlantico aveva avuto, portò solo un diffuso malcontento in tutta la regione, che più tardi si sarebbe aggravato dalla perdita di valore del 50% del rublo (agosto 1998).
Quando, nel 1999, Putin assumeva la presidenza egli aveva deciso, sul piano economico, di mantenere un rapporto di continuità con il suo predecessore: intendeva infatti centralizzare i profitti provenienti dall’export per riempire le casse dello Stato e rompere le righe con le vecchie ed obsolete industrie in favore di una prima e sistematica modernizzazione in tutto il Paese. in questo modo, le forti contraddizioni endogene cominciavano ad affievolirsi insieme al malcontento venutosi a creare nel precedente decennio. Sebbene il lavoro di Putin dava risultati per niente sgraditi, il suo ruolo nel contesto internazionale tardava a stabilizzarsi: anche se da un punto di vista militare essa poteva essere addirittura presa ad esempio, le merci prodotte non avevano ancora una larga destinazione nel mercato internazionale e si rivolgeva per lo più al commercio interno. Inoltre, le poche risorse che uscivano dal paese non rappresentavano un’esigenza primaria per i consumatori europei con la sola eccezione del gas metano. Infine, la crisi del 2008 non si faceva attendere neanche in Russia e ad esempio, ancora nel 2011 a livello valutario, il rublo non era riuscito a divenire un punto di riferimento per le merci di scambio, ruolo ancora ricoperto dal dollaro. Il connubio fra la realtà delle merci e quella del sistema valutario permetteva di concludere che al processo di modernizzazione russo aveva ancora molta strada da fare nonostante l’iniziale piega positiva modellatasi durante la presidenza putiniana.
Mentre la Russia poteva vantare una larga esperienza almeno sotto il punto di vista sia delle relazioni internazionali sia della militarizzazione, l’India, invece, durante il suo primo processo di modernizzazione doveva fare i conti anche con questi due ambiti. Infatti, negli anni Dieci del Duemila, già sperimentava un missile balistico in grado di attraversare il Pakistan e di raggiugere la Cina. L’India decideva pertanto di sottrarsi alla firma del Trattato della non-proliferazione nucleare: questi eventi la ponevano fra le potenze militari emergenti. Negli anni Novanta la società indiana mutava in maniera radicale ricca di paradossi e contraddizioni: potenzialmente, la sua economia avrebbe potuto superare quella cinese eppure ancora non riusciva a decollare per via della radicata stratificazione sociale nella quale persistevano e persistono ancora oggi le regole delle vecchie caste abolite ormai nel 1950.
Nel 1991, l’India abbandonava l’idea costituzionale socialista in favore di quella neoliberista che portava una buona crescita nei settori produttivi sebbene diversi a seconda dell’ambito. Nel 2007 la rivisitazione costituzionale conduceva il Paese ad un ottimo risultato: la competitività dei prezzi dei prodotti agricoli indiani li rendeva estremamente appetibili. Tuttavia il prezzo da pagare era particolarmente alto: le fasce più disagiate della popolazione trovavano ancora più difficoltoso accedere alle risorse alimentari con il grave risultato che il 46% della popolazione indiana sotto i tre anni soffriva di malnutrizione. Il settore che realmente vedeva un ottimo sviluppo era quello dei servizi registrando una crescita media del 7% annuo con una capacità produttiva superiore al 50% del PIL pro capite. Ad oggi, i reali problemi indiani derivano più dall’interno che dal contesto internazionale.
Per quanto concerne la Cina, nonostante il trentennio fra il 1949 ed il 1979, fosse segnato da una serie di svolte importanti il vero momento che designava l’inizio di un grande sviluppo per l’economia cinese erano gli anni fra il 1976 ed il 1980. In questo periodo il vicepremier Deng Xaioping aveva attuato la teoria delle “quattro modernizzazioni”: scienza, industria, economia ed esercito. Tale trasformazione affondava le sue radici su due presupposti principali: il primo, sul piano politico, l’inconvertibilità del Partico comunista cinese, il secondo, la piena liberalizzazione delle industrie private. Su questi presupposti l’imprenditoria cinese cresceva dunque tra il 9% ed il 14% annuo con un andamento costante fino alla seconda decade del XXI secolo. Nel 1992, il PIL cinese superava quello giapponese. La crescita della Cina si doveva soprattutto agli investitori stranieri: nel 2007, una larga fetta del PIL cinese era costituito da esportazioni. La crisi del 2008 aveva però creato un grave problema: 20 milioni di disoccupati. Così il Governo centrale decideva di incentivare la produzione interna, controllo delle merci importate e maggiore oculatezza nella stipulazione di accordi bilaterali. Tuttavia, la crescita economica degli anni precedenti aveva fatto sì che si accumulassero onerose riserve costituite per lo più da titoli statunitensi che rendeva i rapporti -sia commerciali sia politici- sempre più connessi ed interdipendenti.
Si può dunque evincere come tali Paesi, la Cina più degli altri, accentuino il carattere della regionalizzazione economica creando spazio ad una forte marginalità della potenza economica statunitense.
La delimitazione della supremazia americana rende quanto più evidente la volontà, soprattutto della Cina, di operare autonomamente dagli USA.